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LA DROGA NON UCCIDE LA SPERANZA

In occasione dell'inaugurazione dell'Anno Accademico dell'Università Popolare di Molfetta, il 15 dicembre 1984, ad una settimana dall'avvio dell'attività della CASA nella sede della Provinciale Ruvo-Terlizzi, don Tonino fu invitato a tenere la lezione inaugurale. Scelse di illustrare le ragioni dell'inizio dell'attività di recupero e tenne una conversazione dal titolo "LA DROGA NON UCCIDE LA SPERANZA"


Carissimi amici,

voi questa sera mi concedete un alto onore, inaugurare, Voi si che inaugurate, con una mia conversazione l’Anno Accademico di questa gloriosa Università Popolare Molfettese. Io vi ringrazio con tutta l’anima, ma ho paura di deludervi per due buone ragioni. 
Prima di tutto perché devo parlarvi di un tema sul quale la mia competenza non supera granché quella dell’uomo della strada. Ma questo però me lo perdonerete facilmente anche perché non sarò tanto ingenuo da addentrarmi nelle sabbie mobili delle speculazioni tecniche e delle complicate analisi sociologiche. Del resto se volete saperne di più basta girare a caso una manopola della radio o aprire una rivista qualsiasi e vi accorgerete che nel jukebox delle problematiche attuali il ritornello più gettonato è quello della droga. I reportage si sprecano, le inchieste si moltiplicano. Le notizie, comprese le notizie di morte, si accavallano e siamo veramente schiacciati sotto quel carico che oggi con un linguaggio fantasioso viene chiamato la pletora delle informazioni. 
Quante informazioni ci giungono! E noi, sotto questo peso, siamo veramente schiacciati.
Secondo motivo che mi fa temere la vostra delusione è che forse turberò la tranquilla coscienza di qualcuno. Che poi non è una esercitazione tanto infame dal momento che non certo per esuberanze masochistiche voglio cominciare con il mettere sotto accusa la mia coscienza personale, o meglio, quella della mia Chiesa, della nostra Chiesa. 
Mi spiego.
Voi lo sapete che il 1985 è stato proclamato dall’ONU “Anno internazionale della gioventù”. Io immagino già quanti fuochi d’artificio spareremo l’anno prossimo sulle piazze, nelle omelie, nelle tavole rotonde, nelle sacrestie, ma poi faremo pagare la spesa di questi petardi ai giovani stessi. Obbligheremo loro a saldare le fatture dei nostri vaniloqui di adulti e costringeremo a liquidare con la pelle l’estratto conto della nostra retorica. 
Ma intanto come Chiesa, comincio col mettere sotto accusa me, come Chiesa che facciamo per i giovani? 
È vero che essi non fanno più notizia ma il guaio è che non fanno più nemmeno problema. C’è in atto una specie di rimozione pastorale di sapore freudiano, i problemi che non ti vanno li metti giù. 
In molte fasce giovanili la nostra attenzione ecclesiale è irrilevante. Ci lasciamo gratificare dalle pur grosse partecipazioni che balzano agli occhi. Una Cattedrale piena di giovani, magari, oppure una marcia per la pace, ma le assenze, i vuoti, diventano sempre più percettibili. 
Chiamiamo le cose per nome e smettiamo di cercare gli arbusti dietro cui nasconderci come l’Adamo della Genesi. 
Come Chiesa non ci stiamo sprecando per restituire i giovani, distratti oggi da tanti messaggi, ad una spiritualità più robusta, ad una vita interiore meno dissipata, ad una polarizzazione più forte attorno a validi sistemi di significato. Siamo allenatori rassegnati! Stiamo in panchina ma le nostre indicazioni sono ininfluenti nell’economia del gioco. Corriamo il rischio di essere esonerati nonostante il passato glorioso, come De Sisti della Fiorentina. Avvertiamo un calo di tensione nel nostro impegno. Non sappiamo più esporre alle provocazioni della parola di Dio gli aspetti esistenziali più importanti della vita dei giovani: i loro problemi di crescita fisiologica, di maturazione umana, il loro vissuto affettivo, la dimensione politica del loro impegno, la valenza di gratuità nelle esperienze di volontariato, il confronto con le culture, le istanze del loro inserimento nel mondo del lavoro, la lotta per la Pace, per la Giustizia. In una parola, nonostante il gran parlare, i giovani non sono più, come qualche anno fa, al centro della nostra passione ecclesiale. Come non lo sono più al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e dello stesso mercato produttivo.

Miei cari amici, l’auto censura impietosa che ho fatto non è un espediente tattico teso a catturare la vostra benevolenza, visto che oggi per i pentiti, e non soltanto in chiesa, si suole usare indulgenza. È, invece, la cornice giusta entro cui inserire il tema della droga che dobbiamo affrontare stasera e che svilupperemo secondo questa scaletta che le iniziali stesse della parola droga ci aiuteranno a memorizzare.
Cominciamo.

Dati.

Non vi sottopongo ad estenuanti aritmetiche ne vi affliggerò con lunghe statistiche, vi dico solo che ogni 36 ore, in Italia uno muore per droga.
Vi dirò che da noi i tossicodipendenti, secondo gli ultimi dati del CENSIS, oscillano attorno ai 200.000. 
Che l’età più colpita è quella che va dai 18 ai 25 anni. Che si abbassa sempre più l’età in cui si verifica il primo contatto con la droga, 12 – 13 anni, nel periodo della scuola media. Che il 48% dei tossicodipendenti sono disoccupati e il 20% sottoccupati. 
Che in una recente inchiesta promossa dalla rivista “Famiglia Cristiana” risulta che l’81% dei genitori si sono dichiarati estremamente preoccupati dell’avvenire dei loro figli. 
Che, questo è importante, i 200.000 tossicodipendenti sono lo stock finale in cui entrano tre flussi con caratteristiche molto differenti: quelli che hanno fatto droga per rivolta contro il mondo degli adulti, gli anni sessanta. Contro, il primo flusso. 
Il secondo quelli che hanno fatto droga per ripiegamento, in assenza di prospettive, quasi per chiudersi in se stessi alla ricerca di una gratificazione all’interno di un gruppo, di un piccolo gruppo, anni settanta.
E poi, quelli che oggi fanno droga per puro consumismo, indistinto ed esasperato; i così detti drogati del sabato sera, come li chiama Montanelli. 
Si che oggi la droga è diventata consumo di massa senza differenza di classe sociale, di sesso, di area geografica. Per le donne come per gli uomini, al sud come al nord, è oggetto di consumo anche perché è facilmente accessibile a tutti, visto che si è così accentuato il processo di polverizzazione dei luoghi di spaccio.

Ragioni.

Perché i giovani si drogano? 
Forse rischio il ridicolo perché mi sto ponendo con tanto candore una domanda così complessa su quello che è stato chiamato il primo, unico, vero grande nemico degli anni ottanta. 
Abbiamo sentito il nuovo Leviathan. Leviathan era il mostro marino della Bibbia, dei popoli primitivi. Leviathan, un flagello di proporzioni bibliche. Abbiamo ascoltato dalla Presidente la grande bestia dell’Apocalisse. 
Oh questa droga, questo polipo dai mille tentacoli che avvolge…
Forse sembro ingenuo, ma devo cercare una risposta alla domanda perché i giovani si drogano. In poche battute che vuoi che si può dire. 
Nel tentativo di dare qualche cenno di risposta però, desidero indicare alcune motivazioni di “campo lungo”, per adoperare un linguaggio cinematografico, e altre, invece, di primo piano. Le motivazioni di campo lungo le riassumo con tre categorie. 
La prima è quella della emarginazione. Oh, non vi sembri strano. Tutti quanti noi abbiamo una certa età e fino a qualche decennio addietro pensavamo che i giovani fossero i protagonisti, che spaccassero il mondo, che fossero loro i leader di tutte le sfumature della vita. Oggi invece ci accorgiamo che sono una minoranza, che sono loro gli emarginati. Io mi sono sorpreso, davvero, nel leggere un po’ di letteratura a riguardo, quando quindici giorni fa sono stato invitato a parlare al convegno regionale della Caritas che si è tenuto a Bari, sul tema “ Emarginazione giovanile, società civile e comunità cristiana”. Ho detto com’è, emarginazione giovanile? 
I giovani oggi si avviano ad essere minoranza. Sono sempre di meno, mentre si ingrossano le file degli anziani. L’industria se ne è accorta e ha cominciato a preparare un gran numero di prodotti per anziani, omogeneizzati compresi. 
I giovani sono sempre meno padroni del mercato. C’è da aggiungere, poi, che essi vivono l’essere minoranza come solitudine. Non hanno una identità precisa, come accade alle minoranze. Non sono un gruppo sociale.
Dieci anni di movimentismo spontaneista, quanti movimenti spontanei anche nell’ambito della Chiesa, li ha bruciati come identità di gruppo. Questa emarginazione poi si esaspera dal momento che si prolunga la loro dipendenza dalla famiglia e in corrispondenza, in concomitanza, diviene sempre più difficile accedere alla società, alla vita produttiva, al lavoro. 

Questa la prima categoria, l’emarginazione. Mi sta venendo in mente, ma non so se centri molto adesso. Ma non soltanto è diventata ristretta, perché si è ristretto il margine cronologico nell’adolescenza. Mi vengono in mente quei versi di Trilussa, intitolati “favole”, che dicono così: 

“… la favola più corta è quella che se chiama Gioventù: perché c’era una vorta e adesso non c’è più. 
E la più lunga? 
È quella de la Vita: la sento raccontà da che sto ar monno, e un giorno, forse, cascherò dar sonno prima che sia finita…”.

La vita è un fatto soltanto cronologico; quando noi parliamo, invece, di emarginazione qui, di gioventù, e appropriamo questa categoria alla gioventù non intendiamo parlare di un arco di tempo.
La seconda categoria utile per capire le motivazioni di campo lungo della droga è quella della frammentarietà. 
Queste sono categorie che gli studiosi sintetizzano e mettono avanti per poter cogliere alcuni fenomeni. In questo si è reso molto celebre in questi ultimi due tre anni Giuseppe De Rita, Direttore nazionale del CENSIS, che usa anche questo linguaggio fascinoso: la frammentarietà. 
Nei giovani c’è una forte tendenza a frastagliarsi, a suddividersi, a frammentarsi, anche quando sono grandi masse. Ecco perché non fanno più paura oggi. Anche quando sono grandi masse si sentono soli e si difendono riunendosi in piccoli gruppi. L’aggregazione poi avviene quasi sempre fra simili e questo crea un impoverimento reciproco, perché tra simili si sta bene ma poi che cosa ti racconti a lungo andare? 
Ecco l’atrofia. Sicché oggi più che parlare di pianeta giovani si parla di arcipelago giovani oppure di stratificazioni giovanili a più baricentri, non più una piramide con un unico baricentro. Stratificazioni a più baricentri non più riconducibili a unità. I giovani sono frammentati e quindi pensano in modo frammentato. È importante cogliere questo spetto. Di qui la carenza di orizzonte complessivo. 
Quante volte lo abbiamo messo in risalto anche nelle conversazioni con i giovani. Il rifiuto del passato e del futuro, il rifiuto della memoria e del progetto. Conta solo il presente. 
Di qui l’enfasi dell’esperienza. Sembra che sia il criterio assoluto di verità, l’esperienza, la piccola esperienza. Di qui l’enfasi per la pericope, per il ritaglio, per lo spezzone, per il tassello. Ma vivere come una monade chiusa in sè, che se mai si giustappone o si affianca con le altre, ma senza connessioni interne profonde. Senza relazioni che rientri nella logica ordinata del mosaico. Di qui il meccanismo della setta\ anche della moltiplicazione delle sette che giudicano immorale l’apertura agli altri, il dialogo, l’affrontare la complessità del reale al di fuori di schemi semplificatori. 
Di qui quelli che appunto De Rita chiama “i curriculum alluvionali dei giovani”. 
Che significa? Oggi bisogna andare avanti per immagini. 
Per noi adulti, se vogliamo trovare i rigagnoli del nostro fiume, non è difficile ripercorrere la strada andando in dietro, in dietro, facendo l’anamnesi della nostra vita. 
Invece per i giovani non c’è un rigagnolo attraverso il quale risalire alla sorgente. C’è una cascata alluvionale che poi ha provocato l’invaso delle acque: la frammentarietà.
La terza categoria di campo lungo è quello che con un’immagine molto bella di Luciano Tavazza, venuto l’anno scorso a parlare presso il Seminario Regionale di Molfetta, adoperò questa immagine che a me piacque molto: “I giochi sono già fatti”. Cioè il potenziale innovativo dei giovani è azzerato oggi.
Sarà stato un mesetto fa che ho parlato sulla condizione giovanile oggi e sottolineai moltissimo il concetto di “Epoca nuova” che presso i giovani non c’è più. Non si attende più niente di nuovo. Essi non sono più agenti di cambio sociale e culturale. Non sono cioè più i potenziali sostenitori del cambio. Questo è verissimo. Io mi accorgo anche a Molfetta certe volte i più innamorati oggi di alcune tradizioni (cosa buona e bella quando non c’è un’involuzione), delle cose antiche di un tempo sono proprio i giovani. I più attaccati a certe ritualità sono loro. Quindi i potenziali sostenitori del cambio (cambio è una categoria profondamente evangelica, quella della metanoia), non sono più loro. Anzi le nuove generazioni sembrano voler tornare a meccanismi archetipi. C’è nel loro vissuto una caduta di protagonismo, si va istaurando la così detta “cultura della valle”. Lo stile antieroico. La sfiducia nel concetto di epoca nuova. 
Queste le ragioni di campo lungo. Perché i giovani si drogano. 
Abbiamo individuato le ragioni di campo lungo, ora vorrei fare una inquadratura di primo piano su questo grande ragno che tesse una tela enorme in cui l’Italia rischia di agonizzare. Anche qui le risposte si infittiscono, perché si drogano i giovani? 
La risposta di primo piano, perché si drogano i giovani?
Gli studiosi parlano di fattori legati alla crisi della famiglia. Ed è vero!
All’eccessiva permissività dei modelli educativi. È vero!
Alla mancanza di prospettive. È vero!
Al consumismo indotto. È vero!
Alla criminalità che viaggia su corsie preferenziali e sulle ruote ben oleate dal traffico degli stupefacenti. Ed è vero!
Alla facilità di risolvere farmacologicamente i problemi esistenziali. È vero!
Come si vede è molto difficile comporre un quadro eziologico, obbiettivo, esauriente e generalizzabile. È difficile: però sono tutte motivazioni condivisibili (don Nino di queste cose qua è un esperto e dopo ci potrà dire). 
Io però vorrei tentare una risposta unitaria, globale, complessiva, e mi rifaccio a una suggestione di un sociologo contemporaneo, letta in una sua intervista. È il calo della fantasia. Non vi sembri una superficialità questa. 
Ho letto da qualche parte che, per esempio, in una realtà come quella del Rinascimento in Italia non avremmo avuto nemmeno un tossicodipendente. Perché? Perché bastava vedere i quadri o le grandi sculture e la gente partiva, come dicono oggi, “fare il viaggio”. E la gente partiva con l’immaginazione, con la fantasia. La cultura del Rinascimento era una cultura di immaginazione. Noi abbiamo invece avuto due, tre generazioni che hanno esasperato il momento razionale. Questo “esprit de geometrie” per cui alla fine la nostra vita personale è amputata di immaginazione e, quindi, delle emozioni che l’immaginazione e il mondo immaginario danno. Noi oggi non abbiamo più il gusto della fantasia. C’è un dimezzamento della nostra cultura personale e della nostra cultura collettiva. Stiamo diventando esseri unidimensionali. Ci sembra quasi che la fantasia sia una concessione alla debolezza della carne. Quanta gente te lo dice come una censura “ma questo è un linguaggio poetico”. Come se dire poesia o dire fantasia fosse quasi un dimezzare l’umanità, la concretezza umana, il rigore. 
Il polimorfismo della psiche, dell’anima lo stiamo omologando ai bisogni della più gelida razionalità, purtroppo. Oggi soprattutto che incombe su di noi il pericolo cibernetico, mini computer, maxi computer, tutto computerizzato. Dite voi, dove ci sarà più spazio per la fantasia?
Mai che nella vostra vita prevalga la dimensione sanguigna della fantasia, del pensar greco, dell’estro, della irrazionalità, che poi è l’anima di ogni creazione. 
Io penso così. 
Sicché l’immaginazione che dovrebbe essere quasi trasmessa dai geni, dal sangue, dalla cultura dei padri, i giovani se la devono andare a trovare nell’eroina. Non per nulla il loro vocabolario risente dei colori della fantasia (trip, viaggio, essere in pallone). 
A me personalmente adesso sembra un tema generatore, unificante, molto forte per potersi spiegare le ragioni della droga: calo della fantasia. 

Opera.
Carissimi amici mi accorgo che qui corriamo il rischio di fare soltanto un bel discorso accademico, e l’accademia non è che non si addica soprattutto in un momento così importante come questo in cui si apre l’anno accademico per l’Università Popolare Molfettese. Però sarebbe un discorso innocuo. È invece necessario passare sul versante delle opere dei fatti. 
Di fronte a questa situazione grave, anche sul nostro territorio di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo, che cosa occorre fare. Ecco, noi ce lo siamo chiesto. Ce lo siamo chiesto noi operatori pastorali, tanti sacerdoti e anche laici, da parecchio tempo. 
Fare belle conferenze? E va bene… 
Tavole rotonde per disquisire dottamente sulle devianze per droga nel mondo giovanile. Strutturare delle prediche articolate in cui agitare lo spauracchio della tossicodipendenza in tutte le sue nefaste e letali conseguenze. Va bene… 
Lasciarsi prendere dalla paura e dalla delega che sono i veri pericoli che impediscono di affrontare i problemi in termini corretti.
Recriminare con l’aria dei primi della classe contro le strutture pubbliche che ancora sono così lente a muoversi per un cumulo di ragioni che non vogliamo individuare. 
No, noi abbiamo pensato di fare qualcosa. Sull’ultimo numero, che è uscito oggi, di “Luce e Vita” che non ho portato qui, Don Nino Prudente, che coordina l’attività nella C.A.S.A. che si è aperta sabato scorso, spiega proprio in una intervista come è sorta l’dea della C.A.S.A. Una sigla composta dalle iniziali di quattro parole: Comunità Accoglienza Solidarietà Apulia. 
Fin da gennaio ci siamo riuniti insieme in parecchi. Un numero che è andato via via aumentando. E perché? Perchè molti giovani tossicodipendenti venivano da noi, e noi non sapevamo che cosa fare. E, soprattutto, venivano da noi anche parecchi genitori. Che aiuto puoi dare? Quante telefonate nelle varie case di accoglienza… Tutto strapieno… E poi, come seguire in un modo più articolato…
Capite amici miei, ai tempi di S. Vincenzo De Paoli erano gli orfani, i figli che nascevano e che venivano abbandonati, i bisogni nuovi. Adesso sono altri. Forse noi questa duttilità oggi di individuare nuovi bisogni e le nuove povertà non ce l’abbiamo. E allora ci siamo messi anche a girare un pochettino dappertutto nell’agro di Ruvo, di Molfetta… per trovare una casa. Ci siamo accorti soprattutto, lo dice proprio Don Nino in quella intervista di Luce e Vita, che la fatica più grande del tossicomane non è tanto quella di smettere di bucarsi o di fumare, quanto quella di scoprire le ragioni per cui valga la pena vivere. Questa è la fatica più grossa. E allora c’è bisogno veramente di una comunità. 
Abbiamo cercato di prepararci nel migliore dei modi. Lo diciamo con tanta trepidazione, con tanta paura e con tanta umiltà questo, perché chi può dirsi pari ad un compito così arduo? 
Poi, sabato scorso (8 dicembre 1984) abbiamo aperto, non inaugurato, con l’unica grande speranza che possa presto venire il giorno in cui accompagneremo l’ultimo fratello drogato al cancello, per restituirlo alla libertà interiore e potergli dire insieme che vivere è bello! 
Così abbiamo scritto anche in un altro numero. 
In questi giorni abbiamo visto anche tante solidarietà, e questo è segno che la gente è sensibile a certi problemi. 
Per tutto il mese passato ci sono stati anche dei laici, e non tutti credenti, che hanno parlato durante le liturgie domenicali. 
A Giovinazzo, un giorno, due di loro si sono presentati con un cartello che era molto bello. Diceva così: “dietro ogni buco una vita, dentro ogni vita un buco”. Cioè dietro ogni buco una vita, una persona non un personaggio. Cioè un figlio, un fratello, un congiunto, un nome preciso. Antonella… Marianna… Angelo… 
Dietro ogni buco una vita e dentro ogni vita, la nostra, un buco; perché il buco vero non è quello praticato dall’ago ma quello praticato dalla solitudine, dalla mancanza di valori, dal calo di tante realtà che sostengono l’esistenza e sono capaci di darle slancio e generosità.

Giudizio.
Giudizio su che? Sul nostro mondo di adulti. 
Non un giudizio arcigno, accigliato, da quaresimalista rabbioso. Ma un giudizio che ci richiami alla speranza e faccia perno sulle nostre responsabilità educative. 
Indico solo qualche suggestione, tra quelle che mi sembrano più importanti. 
Vorrebbero essere così delle stilettate, delle spine nel fianco. Vorrebbero essere uno scrupolo, nel senso etimologico della parola scrupulum che i latini chiamavano il sassolino che gli entra nella scarpa.
Le suggestioni:
Primo – Noi non sappiamo più svolgere la nostra professione di adulti. 
Comincia l’anno dei giovani, l’85 dovrebbe essere l’anno internazionale degli adulti. Noi non sappiamo più svolgere la nostra professione di adulti perché abbiamo rinunciato alla coerenza. Non dico della coerenza cristiana parlo della coerenza umana. Per forza i nostri messaggi devono essere soccombenti. Non sono sostenuti da quella credibilità che meritano le cose grandi, pulite, semplici, gratuite, povere, profumate di grano. 
Siamo accaparratori, frammentati pure noi, chiusi, egoisti. Quante vicende accadono, anche nella nostra città, e ci vedono così. Duemila anni di vangelo non ci hanno scalfiti troppo! I veri drogati siamo noi! E non è una frase ad effetto. Loro, i giovani, si fanno un buco, noi ci scaviamo delle cisterne. Dentro, nell’anima, noi abbiamo il vuoto: piacere, calcolo, guadagno, interesse, tornaconto, successo, gusto dell’effimero. Sono le variabili di una “nisidina” che stiamo ingerendo a piccole dosi. E ci roviniamo la vita, senza accorgercene. La vita non la gustiamo più con le sue fragranze. Stiamo soltanto sulla periferia della vita, non siamo scesi giù a gustarne tutto il sapore profondo, pulito.
Non voglio darvi l’impressione del moralismo stantio, per cui tempero subito il discorso con la predica che proviene da un altro pulpito, ma che dice la stessa cosa. 
Vi leggo alcuni versi di Gianni Rodari. Uno scrittore, un poeta, per bambini, ma non solo per loro, che ci spiega proprio come noi la vita non la sappiamo più gustare. Ci sono troppe cose ingombranti sui nostri comodini, sui nostri comò. Ci sono molti idoli che abbiamo costruito. Noi grandi la vita autentica non la sappiamo più gustare. Ecco perché i drogati autentici forse siamo noi. 
È intitolato così “i bravi signori”. Sapete che Rodari scherza un po’ con le parole…però quante cose dice…

“Un signore di Scandicci
buttava le castagne
e mangiava i ricci.
Un suo amico di Lastra a Signa
buttava i pinoli
e mangiava la pigna.
Un suo cugino di Prato
mangiava la carta stagnola
e buttava il cioccolato.
Tanta gente non lo sa
e dunque non se ne cruccia:
la vita la butta via
e mangia soltanto la buccia.”

Anche per noi è così, c’è un rischio grossissimo.
Ancora un’altra suggestione. È un giudizio che stiamo esprimendo perché qua siamo adulti. Non sappiamo più svolgere la nostra professione di adulti perché abbiamo perso fiducia nella cultura. 
Non dibattiamo più con impeto. Non progettiamo, noi adulti, dico. Non ci lasciamo provocare dalle nuove situazioni. In fondo alla droga c’è un problema di cultura. 
Ma quale cultura propone la nostra città, con le sue innumerevoli sale da gioco riservate ai giovani? 
Quale cultura danno le istituzioni pubbliche, scuola compresa, che ancora non prendono provvedimenti per arginare il notevole tasso di evasione scolastica? 
Quale cultura promuovono le tante strutture educative di Molfetta se non si convincono che solo curando le fasce di marginalità scolare e intervenendo intensivamente per sussidiare i nuclei familiari socialmente più deboli, si può sottrarre il terreno al proliferare della droga?
Che facciamo noi, davvero che facciamo, quando vediamo questi ragazzini che evadono l’obbligo scolastico? Anche le famiglie come vengono sussidiate, in questo senso, dal volontariato?
Quale cultura promuovono quei centri giovanili parrocchiali, dove ci si limita a dare ai giovani un pallone e una chitarra?
Come non condividere la preoccupazione che spesso anche una certa proposta religiosa è in fondo consumismo bello e buono. 
Combattere la droga sia pure con una bella C.A.S.A. per il recupero dei tossicodipendenti, ma senza un progetto culturale, significa medicare le ustioni ad una persona i cui abiti rimangono in fiamme! 

E ancora un’ultima suggestione.
Non sappiamo più svolgere la nostra professione di adulti perché abbiamo rinunciato all’aspetto ludico (di gioco), estetico della vita. Non basta vivere di libri, di idee, di biblioteche, di dibattiti, se poi andiamo su un altro versante, di affari, di soldi, di cambiali. Dobbiamo assecondare di più il bisogno che abbiamo dentro di ritrovare la bellezza, la tenerezza, la pace, lo stupore. La capacità di bene-dire. Siamo incapaci tutti di benedizioni. Lo stupore, il gusto del gioco, lo stupirsi, ci sembrano estranei alla nostra sensibilità; non abbiamo più la capacità di stupirci delle cose limpide, pulite. 
Dobbiamo coltivare di più la poesia, ma sforzandoci di trovarla non fuori ma dentro, nelle piccole cose, nella quotidianità, senza spericolate fughe in avanti e senza laceranti ritorni all’indietro, scavando dentro. 
La poesia sta dentro la siepe più vicina. Oh, non vi sembri una perdita di tempo da parte mia o l’indulgere a motivi troppo periferici.
Non so devo averla raccontata una volta nel liceo, quando sono stato tempo addietro, una parabola che ci viene raccontata da Bultmann, che è il teologo della speranza, la parabola Kalamazoo, con due o. Non so forse l’avete letta su qualche rivista. 
Ve la dico in poche battute.
Bultmann è un grande teologo e filosofo contemporaneo: ha scritto della teologia della speranza, ha scritto moltissimi volumi di teologia e di filosofia.
Lui racconta questa parabola. C’era una volta in una città americana, dal nome strano Kalamazoo, con due o, un giovane il quale viveva molto poveramente, tanto povero che non aveva nulla. Aveva solo una stamberga, una capanna. 
L’uscio cigolava ogni volta che lo si apriva, c’era un tavolo traballante, una sedia sgangherata, un focolare sempre spento e un lettuccio anzi una branda appena, appena. Voleva farla finita con la vita, perché non ne poteva più; ma una notte ebbe un sogno. Sognò una città il cui nome lui non aveva mai udito, Praga. Doveva essere una città europea. 
Poi sognò che nella città di Praga c’era un ponte di ferro, che sotto passava un fiume e sotto i piloni del ponte vide che c’era sul terreno un disegno fatto con il gesso. Sentì una voce che diceva: “scava lì sotto e troverai un tesoro”. 
“Ehi che fai?” Era un giovane. 
Quell’altro lo chiama: “senti qua!” E gli racconta la sua storia. “Guarda un po’”, dice, “ma lo sai che anch’io ho fatto lo stesso sogno stanotte. Ho sognato una città lontana, il cui nome non ho mai udito, dal nome strano, Kalamazoo, con due o. E poi ho visto una capanna e all’interno della capanna un focolare spento, un tavolo traballante, una sedia che cigolava. E poi ho udito una che diceva scava li sotto (sotto il lettuccio) e troverai un tesoro”. 
“Ma io non è che sono così stupido da andare fin lì!”
Allora, il primo ha capito la lezione. 
Lasciato tutto, ripreso la strada, attraversato questa volta l’Europa, arrivato in Portogallo si è imbarcato con gli stessi espedienti. È arrivato in America a Kalamazoo, è arrivato vicino alla sua capanna. È entrato dalla porta cigolante, il lettuccio traballante, il focolare ancora spento, ha preso un badile e ha cominciato a scavare. Scava e scava, non vuoi che trova il tesoro! E visse felice e contento.
Sembra una favoletta stupidina per bambini innocenti, e invece, è la parabola dell’esistenza. Perché per trovare il tesoro non occorre andare lontano, probabilmente dobbiamo scavare all’interno della nostra vita, nei nostri dintorni. 
Ecco perché amici quando dico il gusto della poesia, il gusto delle cose pulite, il gusto della quotidianità, il gusto della siepe vicina. 
Ci parleranno sul fenomeno della droga, forse, in altre circostanze medici e assistenti sociali, che dovranno qui venire. Però io credo che dobbiamo puntare su queste valenze. Forse, se noi adulti coltiveremo di più quello che ho detto poesia. Ma capite casa voglio indicare con questa parola?
Eviteremo di apparire dei venditori a buon mercato di risposte alle impellenti domande di senso che ci vengono dai giovani. Tante volte noi rivendiamo a buon mercato, diamo subito le risposte. Non daremmo risposte prefabbricate da dottori di Salamanca, ma avrà significato di speranza sulla nostra bocca anche il ritornello di una famosa canzone di Bob Dylan: “risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà.” 

Attesa
Miei cari amici, concludo professando, nonostante tutto, la mia grande speranza. 
Sono un Vescovo e non posso finire questa conversazione senza fare appello a questa dimensione di attesa, di annunzio, di accettazione gaudiosa. 
Domani poi è la terza domenica di Avvento, la domenica gaudente. In un’antifona della Messa si legge: ”Dite agli sfiduciati, coraggio, non abbiate timore. Ecco il nostro Dio viene a liberarci”. E dalla voce di Isaia, domani, ascolteremo: “Lo Spirito del Signore è su di me. Egli mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”. 
Quanti fremiti di speranza, miei cari amici, in queste parole, in questo Avvento. In questa preparazione al Natale, quando tra dieci giorni leggeremo nel Vangelo di Luca, il mitissimo Luca: “C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano, di notte, facendo la guardia al loro gregge”. 
Mi vengono in mente i versi del ventitreesimo canto del Paradiso, forse il più alto di tutta la Divina Commedia, quello che canta il trionfo di Maria e del Figlio.

“Come l’augello, intra l’amate fronde, 
posato al nido de’ suoi dolci nati 
la notte che le cose ci nasconde,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;”
Fiso guardando purché l’alba nasca. 

E l’alba nascerà! Perché la droga tutto può uccidere, fuorché la speranza. 
Potremmo sentirci impari di fronte a questo compito. 
Come si fa con queste piccole iniziative da quattro soldi. Come si fa? 
No, possiamo farcela, se è vero quello che diceva Pascal.
“Il mare intero cambia a causa di una pietra, che cade dentro”.
Intanto un piccolissimo segno è la C.A.S.A., Comunità Accoglienza Solidarietà Apulia. C.A.S.A., una sigla che da quattro lettere iniziali riesce a mettere insieme un’idea. L’idea della casa, della famiglia, del focolare, degli affetti domestici, del tepore, della partecipazione corresponsabile. 
Una sigla che ameremmo fosse il simbolo di tanta gente che si mette insieme perché col piccolo contributo di ciascuno, basta una fragile lettera iniziale, non di più, venga offerto per i nostri fratelli il passaporto verso il continente della libertà. Una sigla che con le assi delle quattro parole che la compongono, sanno tanto di umanità, di Vangelo e di terra nostra. Apulia, può divenire la culla di una grande speranza.

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