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LA SPERANZA

CALENDANO:LA SPERANZA CONTINUA

di Renato Brucoli 
Da «Luce e Vita» dell' 11 novembre 1990



Mi accompagna Gino - barba e baffi d'età su di un volto buono e trasparente come quello di un bambino - operatore volontario presso la C.A.S.A., la Comunità di accoglienza per tossicodipendenti situata a Ruvo.
Dal «Parco del Conte», sede del primo insediamento, su per quattro chilometri, fino al Santuario della Madonna di Calendano, luogo di questa appendice di speranza.
La vita celebra la vita: cosi s'inaugura l'uomo nuovo
Capito proprio mentre la nuova Casa s'inaugura. Ma senza discorsi d'occasione. Senza autorità. Nulla che sia capace di darlo a vedere. Se non me l'avesse detto lui, Gino, non l'avrei mai capito.

Non ci sono nastri da tagliare e neppure madrine ben vestite con il sorriso stampato sulle labbra. Non si dice Messa oggi, ma è egualmente festa: la vita celebra la vita. È un clima speciale eppure quotidiano, quello che si respira attorno. E’ un giorno vero. Non capita nulla che non accadrà nei successivi. Gesti semplici (l'abbraccio, la familiarità nel parlare, la possibilità di guardare nel volto, il lavoro di pulizia dei locali, la mano che terge la fronte gelata di sudore), hanno preso il posto dell’ufficialità. Non c'è nulla di affettato, di artefatto. Nè parole roboanti gridate al megafono, nè inchini e riverenze, nè precedenze e prime file. Ci si può solo piegare per servire l'uomo, quello vero; inginocchiarsi - se si vuole - per sollevare chi è veramente «in ginocchio».
Quell'overdose maledetta
«Oltre il momento della meraviglia e dell'entusiasmo per ciò che inizia – dice Gino - ci si deve scontrare con il chronos, il tempo, gli impegni di tutti i giorni, la dedizione fatta di condivisioni, che in definitiva caratterizza la presenza del volontario. Tanto vale, allora, provarci subito, iniziare immediatamente, senza preamboli di ufficialità: nella carità bigotta, tutta «toccate e fughe», strette di mano e arrivederci a forse mai, non ci crede più nessuno». 
Mi spiega che la ristrutturazione del Santuario di Calendano, ora per l'appunto adibito a Casa di accoglienza per tossici, ha richiesto, oltre le inevitabili e ingenti spese a carico della CASA, un forte investimento di capitale umano e di energie spirituali: «C'è Franco, per esempio, un giovane validissimo, che certe cicatrici le porta ancora addosso, qui ed ora in atteggiamento di donazione totale. Ha seguito i lavori e si è impegnato egli stesso a realizzarli come fosse in costruzione casa sua». 
- Ma da quale esigenza nasce questo progetto? 
«Vedi - dice Gino - non riesco ancora a capacitarmi, ma uno dei ragazzi che aspettavamo qui per oggi, è morto ieri notte per overdose. Questo progetto nasce allora dall'urgenza di togliere il più possibile i tossici dalla strada per iniziare, con loro, quel cammino lungo e difficile di riconciliazione con sè stessi e verso gli altri. 
Ogni giorno ci arrivano telefonate strazianti di genitori, di mogli, di amici che supplicano l'accoglienza di un loro caro. 
Questa sede ci permetterà di ospitare fino ad un massimo dieci ragazzi, il cui numero andrà ad aggiungersi ai 18 attualmente accolti nella comunità di «Parco del Conte». Ci tengo però a sottolineare che la nostra disponibilità non è un modo per tacitare l'anima, bensì è sociale in cui crediamo profondamente, tanto più in un contesto dì pressocché totale assenza dello Stato».
Dal conflitto al dono
- E con la Chiesa come la mettiamo? «Abbiamo verificato che il nostro vescovo don Tonino ha un cuore grande. È stato lui a volerei mettere a disposizione la struttura. La sede, peraltro, era in stato di abbandono, benché avesse una radice storica capace di affondare nel tempo, indietro fino al X secolo. 
Con la diocesi abbiamo concluso un comodato, che per l'appunto prevede l'uso gratuito della struttura (con esclusione della chiesa e del sagrato) per nove anni, salvo possibilità di rinnovo fintanto che le nostre finalità ed attività muovono nel campo del disagio; con l'impegno da parte nostra, di ristrutturare gli interni (mentre il rifacimento del tetto e della facciata è stato affidato ad una impresa individuata dal Genio Civile), oltre che la foresteria del Santuario (che verrà trasformata in laboratorio per l'artigianato) e di curare i giardini e la pineta (in stato di degrado da quando Calendano, da luogo di preghiera, si è trasformato in campo per pic-nic). 
I ragazzi della Comunità hanno lavorato sodo per un anno, tramutando il solito atteggiamento conflittuale verso la società, che normalmente recano in se stessi tanto da rifiutare ogni occasione d'impegno, in espressione di servizio verso quanti raggiungeranno in futuro questo posto, ora quasi totalmente rimesso a nuovo. Desiderano che ritorna ad essere un luogo di preghiera, di espressione dell'amore orizzontale, di immersione nella natura circostante (e quale tenda migliore, quale tratto d'unione più straordinario dell'ambiente per riconciliarsi con l'esistente?). Non è forse già questo un piccolo miracolo? 
È interessante valutare, poi, come un'occasione di sofferenza abbia di fatto restituito alla gente un gioiello architettonico. E ciò grazie all'opera di formiche; voglio dire umile, nascosta, poco apprezzata ma costante, di giovani che desiderano rinascere alla vita. Non che la gente questo non lo capisca. Non lo capiscono i «grandi», i potenti, i saccenti. Ma i «piccoli» del popolo di Dio hanno già mostrato segni di accoglienza verso la nostra esperienza. No, la gente non demonizza il diverso se lo conosce, se ha modo di incontrarlo in carne ed ossa; lo rifiuta se non ha il coraggio o l'opportunità di considerare concretamente chi sia, e continua a figurarselo come fosse un fantasma, o un orco, un drago, un maniaco, o... chissà chi».
Sulla via del ritorno
Dunque, una comunità di tossici in un Santuario Mariano. Che strano! 
Sulla via del ritorno mi chiedo se non è per dire, a lettere di fuoco, che «è l'uomo il tempio vivente di Dio». E se questo elemento di presunta stranezza non sta in fondo a sottolineare soltanto il ritardo con cui la Chiesa traduce in opere una verità essenziale e antica. E se non è giusto proprio cosi. Intuire cioè questa verità di fondo su di un'altra via di ritorno, quella a Maria, che di strade ne ha percorse tante: «Non verso paradisi artificiali, ma verso traguardi di libertà e di servizio», come afferma il nostro vescovo. 
Sì, è straordinario che tutto questo accada proprio a Calendano. Anche per la sua genesi storica, che pare proprio scaturire dalla diaspora fra monaci basiliani di rito greco e benedettini di rito latino, che indietro nel tempo (voglio dire nei secoli) lacerò la comunità ecclesiale di Ruvo, tanto da dividerla fìsicamente, oltre che nella fede. 
In un primo momento, costringendola a pregare divisa l'unico Dio, sia pure nella medesima città, secondo riti diversi - gli uni nella Chiesa di Sant'Angelo, gli altri in quella della SS. Trinità, nelle adiacenze della Concattedrale -. Fino a che fu diaspora. Ed alcuni si collocarono addirittura oltre le mura. 
Calendano sorse così. 
Come al tempo di Cristo, quando gli ebrei pregavano divisi l'unico Dio. Fino a che fu diaspora. Ed alcuni si collocarono oltre le mura, nel tempio sul monte Garizim, mentre altri rimasero a Gerusalemme. 
Cristo, al centro, ad insegnarci l'amore di Dio per l'uomo. 
Calendano, allora, tappa di un nuovo ecumenismo; il servizio all'uomo, unico rito possibile per fare veramente memoria di Lui, nell'unità.

LA CASA

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