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UNA TESTIMONIANZA

Profeta degli ultimi nella mia terra

Dopo un lungo calvario, con le stimmate di una sofferenza umanissima vissuta come un dono, don Tonino Bello ci ha lasciati per sempre. Ricordo ancora quando quest'uomo altissimo e brizzolato, dai modi sìgnorili e dall'eloquio immaginifico e intensamente poetico, sbarcò nella mia terra a fare il vescovo: i suoi gesti netti e inusuali, il suo essere «profeta» dalla parte dei poveri, le sue parole d'amore al «fratello ladro», all'immigrato, al tossicodipendente, al barbone, la sua ricerca spasmodica e concreta delle ragioni, e dei volti, e delle mani degli «ultimi», tutto questo produsse uno schianto, un clamore di trasgressione per tutti i sepolcri imbiancati, uno scandalo destinato a durare nel tempo e a varcare i confini della diocesi di Molfetta.
La sede vescovile, si schiuse ad ogni domanda e seppe accogliere - accogliere in senso proprio, offrendo ospitalità - i senzacasa, i senzavoce, i senzapotere. Il formalismo delle liturgie, gli arcaismi chiesastici e del “latinorum”, lasciarono il posto alla presa diretta con i mondi della esclusione e della sofferenza. Le iperboli della Chiesa trionfante e sfarzosamente rivestita delle glorie di ambigui temporalismi, la religiosìtà piegata a folklore, a superstizione popolare, a fiera consumista: don Tonino tolse le pietre preziose dal suo bastone pastorale, liberò il suo capo dalla regalità della mitra, provò a scacciare i mercanti, dal tempio, fu testimone della strada, dei marciapiedi, dei dirupi più impervi, delle frontiere più spericolate, e talvolta anche delle barricate più difficili e più controcorrente. Dall'incarico di presidente di Pax Christi fu la voce più inquieta ed irritante del pacifismo cattolico: e nei giorni cupi della guerra del Golfo il suo dissenso si scagliò contro il muro di gomma del nuovo e mortifero ordine internazionale, contro il fuoco delle invincibili gendarmerie planetarie, contro il finto realismo di chi sostituiva le anni della politica e della diplomazia con le armi propriamente dette, e contro il corollario venefico delle retoriche patrìottarde e occidentaliste. Irrise all'estetica e alla potenza tecnologica delle «bombe intelligenti» e per questo fu irriso: fu un profeta disarmato in tempo di penuria di profeti e di abbondanza di armi. Capì che l'apparato militare-industriale è uno stile di civiltà, modifica l'intero modello di sviluppo, plasma i valori e le relazioni tra i gruppi e gli individui, e coerentemente marciò contro la militarizzazione del Sud Italia: in Puglia disse «no» alla trasformazione del paesaggio brullo e pastorale delle Murgie, in un moderno poligono di tiro, disse “«no» al trasferimento dei terribili Tornado nella base Nato di Gioia del Colle, disse «no» al raddoppio dell'arsenale di Taranto. 
Viaggiò tanto, sulle orme dei missionari e degli emigranti. Traversò gli oceani e i continenti, sentendo il fascino di quella «teologia della liberazione» che consolava i poveri nella radìcale contestazione dei ricchi. Insofferente per quell'epifania delle apparenze e dei diplomaticismi vaticani che rende effimere le parole di chiesa, don Tonino spezzò il corpo della parola come un'ostia carica di cose umane.
Dalle parole distillò il dolore che incontrava e che raccontava nei suoi discorsi, nelle sue lettere pastorali, nei suoi libri, nelle sue preghiere. Camminò, come lui stesso amava dire, «sui sentieri d'Isaia», incurante delle polemiche, infastidito per la vischiosa mafia delle prudenze e degli opportunismi.
La pace, l'antirazzismo, l'accoglienza delle diversità, il riscatto del nostro e di tutti i Sud del mondo, e persino la liberazione della donna interrogata nella figura dinamica (e non nell'oleografia imbalsamata dei santini) di Maria, madre di Cristo: su questi temi spese senza risparmio il suo lavoro di vescovo. Poi giunse la malattia. Già piegato dalle metastasi non rinunciò a raggiungere Sarajevo, con quella carovana pacifista che ruppe la sinfonia delle granate e dei fucili e cercò, per un attimo, di cambiare pentagramma.
Carissimo don Tonino; ti rivedo ricurvo in quel letto di ospedale, il corpo spolpato, ormai calvo, ma i due occhi vivi ed infuocati più che mai. 
Tre ore ad intrecciare ricordi e riflessioni, a tendere quel filo d'acciaio di una amicizia ormai antica. Mi hai accolto dicendomi: «Vedi, Niki, quando mi dispero per questa sofferenza, penso che in fondo è giusto che sia così. È giusto che un vescovo viva questa specie di martirio. Noi vescovi parliamo sempre della malattia e del dolore, ma siamo quasi sempre al riparo, su una sponda tranquilla: e la nostra tranquillità ci rende sinceri». Eri furente contro la mediocrità dei tempi nostri, contro i nuovi conformismì, anche contro quei «sacri affari» (proprio così dicevi) cui spesso si dedicava la tua stessa chiesa. Poi parlavi del!' amore, quello tra due esseri umani, quello anche corporale, non come una deviazione peccaminosa, ma come una grazia dal Cielo.
Poi parlavi della morte, del mistero più insondabile, di quell'alterità che ci mette i brividi, che dice alla nostra «fìnitezza» su questa terra, che ci spinge a dare un senso più alto alla vita, anche alla vita più sfibrata, e dolente. Poi parlavi di quell'unico Dio che non conosce lingue o latitudini o particolari liturgie, ma che è parola sgorgata dal silenzio, luce partorita dalla tenebra. 
Agonia della croce e della resurrezione, senza punti cardinali a segnare quei confini dell'amore che spesso sono confini dell'odio. 
Agonia della croce e della resurrezione, senza punti cardinali a segnare quei confini dell'amore che spesso sono confini dell'odio. 
Abbiamo confrontato le nostre fedi, abbiamo percorso assieme un pezzo di strada, abbiamo talvolta intravisto un comune orizzonte: in un mondo che irride all'amicizia, noi, anche così lontani e diversi, ci siamo tenuti per mano. Oggi perdo il dono del tuo sorriso. 
Non perdo però la struggente punteggiatura dei tuoi dialoghi. Ovunque c'è un punto interrogativo aperto alla speranza, io lì sarò: caro don Tonino, lì ti aspetterò.
Nichi Vendola
(da «Liberazione»: del
23-4-93) 

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